Prefazione al libro “Ho insegnato storia dell’arte” di Maria Lisa Guarducci

Dopo aver letto il libro di Maria Lisa Guarducci, mi è tornato in mente il motto di Callimaco “Μέγα βιβλίον, μέγα κακόν, grande libro grande male”.  Si tratta infatti di un componimento breve, appena 30 pagine, in cui però l’autrice è riuscita a condensare il senso di una vita spesa nell’incanto di insegnare.

Non è virtù di molti essere capaci di operare sintesi intelligenti, discorsi in cui ogni parola è soppesata e significante oltre che significativa: né troppo, né troppo poco.

Fin dall’inizio è chiarito quale sia lo spirito che ha sorretto l’autrice durante la sua vita professionale: la passione per lo studio e per la storia dell’arte. E dunque, necessariamente, vi è stato un intreccio con la vita privata, perché sempre di vita si tratta. Siamo quindi condotti a conoscere gli anni dell’infanzia, le radici del suo amore per la conoscenza che da subito le ha indicato la via dello studio e dell’applicazione. La fascinazione per i libri ma anche il legame intimo col mondo della natura, con i suoi ritmi e i suoi riti, assorbito nell’infanzia nella campagna orvietana. L’educazione rigorosa ma anche affettuosa ricevuta dai genitori ben intrecciata con quella dei secondi educatori, gli insegnanti dei vari gradi di scuola, fino all’università, in cui l’autrice ha costruito le sue competenze filologiche, la capacità di approcciare i problemi in modo complesso e stratificato, umanistico, nel senso che tutto ciò che è umano ci deve interessare. E tutto questo grazie a docenti in grado di tenere incollati alle sedie i loro studenti grazie alla propria conoscenza e al proprio amore per le discipline di studio.

Inevitabilmente si traferisce nel proprio modo di insegnare, il modello con cui abbiamo appreso. Ecco dunque la grande responsabilità degli insegnanti: lasciano il segno e debbono fare in modo che sia un segno positivo, costruttivo, fondante per chi proseguirà il loro lavoro.

Naturale quindi che Maria Lisa Guarducci abbia impostato il proprio valoro di insegnante su questi valori, come naturale che abbia sentito insofferenza per altri aspetti di questo nobile e fondamentale lavoro. Non parlo tanto della cosiddetta ‘burocrazia’, quanto della mancanza di ‘visione’. Mi spiego: il riempire registri e schede può essere pesante ma un professionista serio capisce ben presto che sono atti necessari a dare concretezza, rigore, rendicontabilità al proprio lavoro. E allora non avverte più il peso o l’inutilità di compilarli perché si rende conto della loro necessità per sé e per gli altri. Purtroppo sono assai rari i docenti con l’animo del prof. Keating (quanti danni ha fatto quel seducente film che è “L’Attimo fuggente”!), e spesso il suo modello funge da pretesto per chi prende la scorciatoia rispetto alla via maestra dell’assunzione delle proprie responsabilità. Insomma è una fuga.

Assai grave, direi insopportabile, è invece lavorare in un ambiente privo di visione, cioè di ampiezza di orizzonti finalizzata ad una meta. Si tratta di scegliere come impostare la propria vita e il proprio lavoro: come una fuga o come un viaggio, meglio, un pellegrinaggio che, etimologicamente, significa andare vagando oltre i confini della propria terra alla ricerca di un bene più grande.

Qualsiasi uomo o donna di valore si pongono in questa dimensione e soffrono nell’incontro con persone rese pigre dalla paura di doversi sobbarcare oneri e responsabilità e in questa indolenza perdono tutto il bello con cui un lavoro ben fatto può ripagare della fatica impiegata.

Ecco quindi la confessione dell’autrice delle insofferenze patite durante riunioni del Collegio dei docenti che l’hanno convinta “di quanto il collegio sia in verità una macchina reazionaria volta al mantenimento dell’esistente, dello status quo, dove alligna il monito gattopardesco e il vero cambiamento è visto come un nemico a prescindere”.

O l’impatto con l’apparato ministeriale dal quale matura il pensiero che “con la scusa della libertà d’insegnamento, in realtà si è dato libero sfogo alla baraonda creativa. E tanto meno si sa, tanto più si può essere creativi”.

Un’altra notazione degna di nota è che “La scuola prima di tutto si fa in classe, durante l’orario curriculare. E’ in quel momento che si costruiscono le basi solide della formazione degli allievi all’interno dei vari ambiti disciplinari”. In altre parole, non si possono condurre gli studenti sulla via delle esperienze, senza dotarli delle conoscenze. La didattica laboratoriale è tale se non diventa scusa per diventare attività fine a sé stessa, ma veicolo per indurre e produrre conoscenza.

Trovo molto importante questo richiamo alla serietà della didattica in un momento come questo in cui vi è una grande incertezza tra il perdurare del modello frontale tradizionale e il costante richiamo alla didattica per competenze. Quest’ultima è senz’altro il modello da perseguire, ma solo docenti esperti conoscitori della propria disciplina ed esperti altrettanto di didattica, possono metterla in atto senza indurre i propri studenti in atteggiamenti superficiali che non hanno uno scopo.

Infine l’impegno, anche politico, per la difesa della storia dell’arte nel curricolo della scuola italiana. L’Italia ha incluso fin dall’origine dello Stato, la difesa e la valorizzazione del patrimonio tra i primi dieci articoli della propria Carta Costituzionale  ed ha il primato nel mondo di aver inserito tra gli insegnamenti della scuola questa disciplina. Non è certo un caso, dato il suo essere un museo diffuso, un museo a cielo aperto, che in Italia si sia ben presto avvertita l’urgenza di formare i giovani alla necessità di conoscere per rispettare. Al di là di ogni portato culturale assai evidente, è chiaro quanto questo sia importante per formare cittadini attivi e consapevoli, responsabili del bene comune.

Di qui la battaglia della Guarducci perché si scongiurasse la cancellazione della storia dell’arte dal curricolo della scuola secondaria di secondo grado, battaglia che ha avuto, tra i suoi molti meriti, quello di vederci affiancate, in quanto all’epoca ero al mio primo mandato di presidenza dell’ANISA.

 

In conclusione, consiglierei la lettura di questo libro di Maria Lisa Guarducci a chiunque accarezzi l’idea di diventare un insegnante. Vi potrà trovare indicazioni preziose per riuscire in questo meraviglioso lavoro, anche perché, ognuno di noi dovrebbe sempre ricordare la frase di Primo Levi

“Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono” (“La chiave a stella”, 1978).

 

Maria Lisa Guarducci la felicità l’ha sicuramente conosciuta.